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L'ANTICA OLIVETA DI PIANOSA

Spesso, leggendo documenti d'archivio o bibliografici relativi all'Isola della Pianosa, troviamo riferimenti e citazioni riguardanti l'immensa quantità di piante di olivo - o olivastro - presenti sull'isola.
Già Cosimo de' Medici il 22 dicembre 1553, in una lettera scritta a Lucantonio Cuppano, Governatore di Piombino, dà la concessione a Niccolò Guicciardini di raccogliere in Pianosa tutte le olive che rischiavano di cadere e di sciuparsi dopo che l'Isola aveva subito, l'8 agosto precedente, la feroce distruzione da parte della flotta Gallo-Turca capitanata da Dragut e la deportazione di gran parte della popolazione in Nord Africa.

L'antica oliveta di Pianosa

Il Duca così scrive:

"Molto magnifico colonnello, noi sendoci stato referito essere quantità di ulivi nell'isola della Pianosa et l'ulive caderi et andari male per non vi esseri chi v'attenda nè edifizi da condurre l'olio: et avendoci ricercati noi Niccolò Guicciardini che glie ne concediamo per farle carne, potendo, a sue spese, et ricorre et condurre in luogo comodo di questo nostro ducale dominio; volentieri ne lo abbiamo compiaciuto e per non pregiudicare a' padroni gli abbiamo ordinato che non tolga quelle delle quali e' padroni son presenti e che ne vogliono disporre. Per il che ci è parso soscriversi et admettersi che tutti quelli che verranno con lettera et ordine di messer Niccolò predetto le passino a loro spese carne et ricorre et imbarcari per dove a loro piacerà in questo nostro ducale dominio, con lasciare però quelle delle quali fussino li padroni presenti; et non se ne collentassino perchè non intendiamo per questo che, se ne vogliano disporre a loro piacimento, ne siano impediti, ma che delli absenti o che non vi possano provvedere, siano collente a far sì che non ne vadino male, e che mandati di messer Niccolò le conduchino dove et come di sopra si dichiara; et di quante ve ne commettiamo ne facciate loro quella commodità et favore ho nesto, che se sulla spesa et danno loro o di altri vi richiederanno e che noi conforme a questa nostra giudicherete convenienti".

Questa lettera evidenzia quanto dovesse esser rilevante, ed economicamente interessante, il prodotto di questi olivi.
Sappiamo che l'Isola fino ai primi dell'Ottocento fu abbandonata all'incuria poichè i proprietari, i Principi Boncompagni Ludovisi, si rifiutavano di investirvi capitali per la sua sicurezza militare e sanitaria. Fu subito eletta dai pirati come covo e base è per le loro scorrerie, tuttavia venne ugualmente sfruttata da pastori che annualmente vi portavano le greggi dall'Isola d'Elba a loro rischio e pericolo; fu anche data la facoltà di tagliarvi legna in annate particolarmente difficili per l'economia elbana; non in ultimo alcuni abitanti dell'Elba vi si recavano per seminare alcuni terreni, ai quali, per agevolarne la pulizia, non mancavano di appiccare il fuoco. Nonostante un secolo e mezzo di quasi totale anarchia, in una relazione del 1702 redatta per conto del Principe di Piombino, si sosteneva che "essendovi quantità d'olivi, tuttavia domestichi, che colla spesa che nelli campi si facesse se ne ricaverebbe l'utili delli legnami, oltre le sementa e l'olive", testimonianza che ancora esistevano le vecchie piante d'olivo presenti fin dalla distruzione dell'Isola.

Ma una prova ancor più certa della presenza di queste piante d'olivo, passate indenni attraverso le vicissitudini dell'Isola, la troviamo pubblicata nel 1808 nel libro di Arsenne Thiébaut de Bernaud Voyage a l'Jle d'Elbe, dove, nel descrivere la Pianosa, ricorda: "Parmi les végétaux pleins de vigueur que cette fle presente, l'olivier rappelle ses malheurs", considerando i "dolori" dell'Isola la passata distruzione di cui abbiamo accennato pocanzi.
Napoleone stesso, nel ricordare la Pianosa dal suo esilio a Sant'Elena precisa che sull'isola vi ha passato dei giorni a caccia, che vi si trovano dei pozzi d'acqua buona e che è "couverte d'oliviers et de toutes l'espèces d'arbres".

Queste piante d'olivo, come abbiamo appurato dai documenti, hanno attraversato tre secoli, e possiamo certamente affermare che dovevano avere una mole considerevole. Probabilmente non erano le uniche piante d'olivo -o olivastro- presenti sull'isola, perché questa pianta sembrerebbe aver trovato le condizioni climatiche ottimali per riprodursi: sono del periodo napoleonico i primi conteggi di esse e sappiamo che in Pianosa vi erano circa 25.000 esemplari; sia che fossero piante domestiche o selvatiche, all'epoca il loro frutto meritava di essere raccolto e trasformato: considerando che si ricavava olio da ardere dalle bacche di lentisco, è naturale affermare che il prodotto degli olivi non dovesse esser trascurato.

Nei primi anni del Granducato di Toscana - cui la Pianosa appartenne in virtù del trattato di Vienna del 1815, dopo essere stata di nuovo abbandonata alla partenza di Napoleone - si trovano richieste da parte di privati che desideravano prendere l'Isola in affitto per potervi stabilire una colonia agricola popolata e produttiva. In genere il primo capitolo d'entrata riguardava l'olio da ricavarsi dalle tante piante d'olivo già esistenti, oltre che da altre nuove da piantarsi, oppure dalla legna che vi si poteva ricavare tagliandole. La controproposta del Granducato, presentata da Giovanni Fabbroni - responsabile dei Regi Possessi, delle miniere e della Magona - fu quella di stabilirvi delle fattorie, costruite in modo regolare, provviste di un'estensione tale di terreno da comprendere case coloniche, campi coltivabili, orti, olivi e vigne: ma l'attenzione a queste piante antiche venne subito presa in considerazione, e anche se sarebbero state d'intralcio all'esatta coltura simmetrica da porvi in essere, egli sostenne che non avrebbero dovuto essere abbattute per rispetto della loro vetustà.

L'isola non trovò nessun privato disposto a prenderla in affitto fino al 1835, quando per i venti anni successivi fu oggetto di un progetto agricolo-industriale dalle ottime premesse ma dalla fine disastrosa. Il piano industriale, intestato a Carlo Stichling, console prussiano a Livorno, prevedeva, oltre a varie attività agricole ed edilizie, la messa a reddito degli olivastri innestandoli e concimandoli, e la sistemazione degli antichi olivi potandoli e curandoli a dovere. L'impresa, dopo poco meno di cinque anni, fallì per gli investimenti eccessivi o sbagliati - a fronte di ricavi irrisori; venne ripetutamente interpellata la prestigiosa Accademia dei Georgofili di Firenze alla quale si chiedevano i motivi della poca resa dei maestosi olivi pur innestati e potati: la risposta, senza che nessuno fosse andato sul luogo, verteva principalmente sul clima salmastro nocivo alle piante e sul poco effetto dell'innesto su piante antiche.

Pianosa fine Ottocento - Detenuti addetti ai lavori agricoli
Pianosa fine Ottocento - Detenuti addetti ai lavori agricoli

Nel frattempo l'impresario, vedendo prossimo il fallimento, cedette la sua parte al socio di maggioranza, e una volta effettuato il passaggio, dette fuoco, forse per non lasciar traccia di quello che aveva fatto con le piante d'olivo, a parte dell'isola; così descrivono i testimoni:

"Pianosa, 18 novembre 1839
Antonio Donnini, Antonio Tesei, Giovanni Conci, Bernardo Batignani e Domenico Galletti, Coloni dimoranti alla Pianosa, attestano in omaggio della verità  e non altrimenti, come alla richiesta del signor Francesco Mibelli Amministratore giudiciale della Pianosa medesima avendo perlustrata la detta Isola, e riscontrate numericamente le piante di Olivo incendiate, furono queste trovate ascendere a mille quattrocento cinquantacinque, delle quali settantaquattro domestiche, state innestate per ordine del Signor Carlo Stichling.
Oltre di che ne furono rinvenute quarantasette recise al suolo, senza computarvi quelle ascendenti ad un numero non indifferente, e che d'altronde non può precisarsi per essere state svelte dal terreno perfino le radici, e che erano le più belle e rigogliose: tra le quali principalmente quelle una volta esistenti al così detto Campo al Giudice, essendo state osservate dai fide-facienti nello stato dello loro piena vegetazione, e avanti che fosse dato il sacrilego taglio alle piante medesime.
Attestato inoltre che questa vasta cultura di quella rnsta oliveta è stata non solo totalmente trasandata, ma distrutta eziandio quella intrapresa nei primi anni dell'amministrazione del sig. Stichling, per di lui ordine espresso, vedendosi le piante domestiche recise ed incendiate, non casualmente, ma per volontà ben dichiarata del signor Livellare, il quale in unione del suo cognato Sig. Leone Wilkens presiedeva e dirigeva l'incendio con apposite faci, pagando ai contadini le loro opere per tale operazione; cosicchè prescindendo dal danno enorme recato all'Oliveta col taglio e coll'incendio, di cui si è parlato, un danno di diversa specie è stato cagionato all'oliveta medesima per difetto della necessaria cultura, non offrendo in quest'anno veruna raccolta di olive, e neppur quella ordinaria che soleva produrre nella sua selvatichezza, per avere notabilmente sofferto le piante, che sebbene non totalmente incendiate, rimasero investite dal fuoco".

Foto tratta da Sommelier S., L'isola di Pianosa nel Mar Tirreno, Firenze 1909 pag.59
Foto tratta da Sommelier S., L'isola di Pianosa nel Mar Tirreno, Firenze 1909 pag.59

Nella seconda fase, iniziata nel 1840, il socio di maggioranza, Godardo Shaffgoatch, coadiuvato anche dal socio Attilio Zuccagni Orlandini, geografo ed erudito fiorentino, rilevarono l'azienda cercando di imporre un criterio più scientifico alle colture: si intensificò così la corrispondenza con l'Accademia dei Georgofili che a sua volta cercava di dare risposte basandosi non solo sulle esperienze avute da altre realtà della Maremma e del Lucchese, ma anche cercando conferme da testimoni che potessero aver toccato con mano la realtà pianosina. Ecco la verità che uscì fuori pubblicata dal georgofilo Antonio Salvagnoli Marchetti nel Giornale agrario della Toscana del 1843:

"Negli anni 1843 e 1844 fu qui agitata una questione, importantissima per la nostra Toscana, dell'addomesticamento degli Olivi selvatici o Olivastri.
Si diceva da alcuno che questo non era riuscito negli olivastri dell'isola di Pianosa, sebbene fossero state usate tutte le possibili cure. Ma ben vi rammento che nell'Adunanza del 4 febbraio 1844 io sosteneva possibile ridurre domestiche quelle piante, tanto con argomenti tratti dalla teoria, quanto dalla pratica universale antica delle Maremme: e mostrava l'assoluta necessità di visitare l'Isola di Pianosa per accertarsi del vero stato de' suoi rigogliosi Olivastri, e per recare la causa ignota che si asseriva averne resi vani i tentativi d'addomesticarli.
Le mie parole trovarono un valido appoggio nell'illustre nostro Presidente. E sebbene tutti gli Agronomi fossero concordi ad escludere il possibile che vi fossero specie di Olivastri non addomesticabili per l'ostacolo di cause ignote; pure ritenni interessante di verificare il fatto della Pianosa; poichè, lasciato incerto, poteva arrecare gravi danni ai progressi dell'agricoltura nelle vicine Maremme, ove si trovano molti milioni di olivi selvatici.
Ora però posso confermarvi la verità che io vi diceva, svelando le ragioni dell'infelice esito delle operazioni eseguite per ridurre domestici quei bellissimi Olivastri; e valendomi a quest'oggetto delle notizie che mi son state comunicate (con facoltà di valermene) dal mio amico, e distinto agronomo il Sig. Angiolo Trecci, Gonfaloniere della comunità di RoccaAlbegna, inviato dal Regio Governo a visitare l'isola della Pianosa nel luglio 1844.
Il Trecci comincia dal descrivere l'eseguito taglio degli olivi, ed io vi trascrivo le sue parole.
Se è vero che gli Ateniesi avevano solennemente maledetta ogni persona che tagliasse gli olivi, o amica o loro nemica che si fosse: chi sa quanto cruda avrebbero imprecata questa maledizione se avessero veduto, come io vidi con grave dolore, tagliate ed atterrate colà nel decorso inverno oltre ad 800 ceppaie di queste piante fornite in ragguaglio di circa a quattro pedoni ciascheduna. E la scure che percosse andantemente queste piante cadde al certo sulle migliori, perchè fra quelle che avevano radicato nella miglior situazione dell'isola; perchè tali si presentano a colpo d'occhio le vicine piante scampate al taglio; e perchè infine danno di ciò sicuro andamento i recisi tronchi, che non per anche tutti imbarcati, giacciono integri e sanissimi sulla spiaggia presso il Bagno d'Agrippa; dei quali misuratine diversi, non esitai a persuadermi che proporzionalmente la di loro respettiva circonferenza non poteva essere minore di un braccio e mezzo: e fra questi tronchi mi fu asserito trovarsi quello del più grosso Olivastro che fosse esistito sull'isola, la di cui circonferenza misurata da me all'altezza di oltre un braccio (58 cm., ndr) dalla ceppa, era di tre braccia e mezzo".

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Attilio Zuccagni Orlandini, Topografia Fisico Storica dell'Isola di Pianosa, Firenze 1836

L'impresa agricola continuava quindi a essere difficoltosa, i ricavi minimi rispetto agli investimenti e il primo utile che si pensò di raccogliere fu quello del taglio e dello sradicamento dei maestosi olivi che avevano nelle loro radiche dei disegni magnifici per le tarsie dei mobili e nel loro tronco una durezza unica per la costruzione di navi. Dopo venti anni di tentativi quindi, la Pianosa non dava i frutti sperati e il Governo Toscano si riprese il territorio cercando immediatamente di renderlo utile: dal 1855 iniziò il lungo periodo, arrivato fino quasi ai nostri giorni, della destinazione della Pianosa a Colonia Agricola penale, gli olivi, ormai decimati, passarono in secondo piano rispetto alla coltura della vite, e il deputato Ferdinando Lopez Fonseca, nel redigere una relazione - Delle condizioni agricole della Pianosa, Firenze 1880 - sull'inutilità e la dispendiosità delle colonie agricole penali per lo Stato italiano, così riportava riguardo agli alberi da frutto nell'Isola di Pianosa:

"Le piante da frutto abbondanti sull'isola ascendono a circa 3000 olivi, molte centinaia di fichi e mandorli, ed ancora negli orti si contano parecchi peri, meli e susini. Degli ulivi nati spontaneamente nell'isola, se ne contavano ai tempi di Napoleone I più di 20.000 piante; oggi ne rimangono poche migliaia, perchè gli antichi fittaiuoli ne consumarono da 10 a 11.000 come legna da ardere e le passate Amministrazioni, imitando questo vandalico esempio, se ne servirono per combustibile nella cottura di quei mattoni di cui buona parte furono spediti in Sardegna con poco o nessun utile dell'Amministrazione.
Le piante d'ulivi in essere sono disseminate in tutta l'isola, nei terreni a cultura e in quelli incolti.
Una buona porzione furono innestate, hanno una vegetazione rigogliosa, una folta chioma; e presentavano, quando io visitai l'isola nel 1877, un 'abbondante fioritura: quelle piante che vivevano nel terreno agrario. Le piante stente hanno le radici fra le rocce ed in parte allo scoperto; presentemente questi olivi sono poco o nulla potati, mai in vita loro furono concimati, e solo taluno ebbe la fortuna di una zappatura negli anni addietro. La mancanza di buona coltura e l'abbandono in cui si trovano credo dipenda dal non avere la presente Amministrazione, come la passata, alcuna.fiducia nella buona riuscita di essa".

Nel 1909 il botanico Stefano Sommier condusse un importante studio sulla flora della Pianosa - L'Isola di Pianosa nel mar Tirreno e sua flora -, fotografò anche le più belle piante d'olivo presenti sull'isola, ma era consapevole che si trattava del residuo delle piante introdotte probabilmente nel periodo dell'impresa industriale condotta dal 1835 al 1855, e che nulla più rimaneva degli antichi olivi; così tristemente si rammanca:

"Una cosa però fa meraviglia, ed è che quelle grosse piante di ulivo venissero rispettate dai boscaioli in quei lunghi anni di quasi anarchia, specialmente quando si sa che veniva concesso il taglio degli alberi anche dai Signori cui l'isola apparteneva. Per spiegarlo bisogna supporre che fosse rimasto un certo rispetto per quelle piante delle quali forse si seguitava ancora a ricavare dell'olio".
Peccato.

Ilaria Monti

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