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QUEI PARADISI SENZA PIÙ SBARRE. MA ORA LI INGABBIA LA BUROCRAZIA

qn.quotidiano.net, 6 aprile 2014

PER PIÙ d’un secolo, sono state isole in gabbia: Gorgona, Capraia e Pianosa, paradisi naturali ingabbiati dalle colonie penali agricole che hanno avuto storie simili alla famigerata Guayana francese. Storie di detenuti e di guardie letteralmente sepolti vivi: e i piccoli cimiteri isolani testimoniano in silenzio gli alti numeri di suicidi, specie tra gli agenti. Poi le sbarre delle gabbie sono cadute, almeno per Capraia e Pianosa. E come spesso accade in questo Paese, le isole del diavolo — i detenuti le avevano così battezzate — sono diventate ‘le isole dello spreco’. Uno spreco che grida vendetta al Cielo: da più di vent’anni a Capraia, da quasi dieci a Pianosa. Perché questi paradisi ex-inferno sono stati abbandonati al degrado, vietati dall’incrocio delle burocrazie di Stato a ogni utilizzo produttivo, trasformati in motivi del contendere con le comunità locali — dove le comunità sono rimaste, come a Capraia, arrangiandosi per sopravvivere — e con le altre istituzioni del territorio. Milioni e milioni di investimenti pubblici lasciati lentamente marcire.

DICE il sindaco di Capraia, Gaetano Guarente, che sull’isola c’è stato fin da bambino con il padre che era un agente carcerario: «Siamo stati e rimaniamo figli di un Dio minore». E c’è tutta l’amarezza di chi, per ben tre mandati (non consecutivi) da sindaco, si è sfinito in battaglie con il ministero di Grazia e Giustizia, con la Regione, con le varie avvocature di Stato per liberare l’isola dalle gabbie della burocrazia ottusa. Con una sola vittoria, peraltro parziale: quella in Cassazione che ha riconosciuto la normativa degli «usi civici», ma di fatto consente solo qualche orto e piccole attività turistiche.

DUE battaglie diverse, quelle per Capraia e Pianosa, ma entrambe con un assurdo di base: il loro patrimonio di immobili, di caserme, di diramazioni carcerarie e tanto altro è stato vietato a ogni uso e lasciato andare in rovina. Quando la colonia di Capraia ha chiuso i battenti circa vent’anni fa, dopo che era rimasta in funzione dal 1873 — in quel terzo d’isola che aveva in concessione c’erano strade, impianti di irrigazione, pozzi artesiani, una intera località (la Piana) coltivata a frutta, vigna e ortaggi, una centrale elettrica, uno spaccio per i residenti (in gran parte famiglie di guardie o pescatori immigrati da Ponza) a prezzi calmierati: e anche le più sperdute «diramazioni» sulla montagna avevano acqua e luce, erano collegate da strade praticabili, con rimboschimenti curati dai detenuti.

POI LA DECISIONE di chiudere, legata anche al criterio — indubbiamente realistico — che ormai la delinquenza contadina era surclassata da quella urbana e quasi nessuno dei detenuti sapeva più coltivare la terra. E si chiuse. Lasciando che tutto andasse in malora, e senza rispettare l’antico patto del 1873 secondo il quale tutto sarebbe dovuto tornare al Comune. Pianosa è peggio, con qualche spunto di pseudo-turismo in perenne guerra con le zecche e altri parassiti. A Capraia qualche imprenditore caparbio ci prova: è nato un porto turistico, alla Piana è tornata la coltivazione della vite con vini Doc, una piccola parte della ex colonia ha attività di micro agriturismo con le norme degli usi civici. Ma sono punture di spillo contro un immane, vergognoso spreco di Stato. Del quale non si intravede la fine.

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